Innovare è sempre stato un tema molto importante nelle corporate e, con il consolidamento dell’ecosistema startup italiano, ormai non è più una sorpresa trovare, magari in declinazione diverse, programmi di open innovation nella grandi aziende con lo scopo di “usare” la velocità nel mettere a terra innovazione proprie delle startup con i need aziendali.
Con la mia prima startup ho partecipato a molti di questi programmi e, sebbene ha sempre costituito un’ottima occasione di contatto con potenziali grandi clienti e di networking, raramente ho avuto la possibilità di convertire la partecipazione in nuovi clienti. Nei migliori scenari, comunque molto rari, si arriva a un POC (Proof of Concept), che nel gergo aziendale è un po’ di più di una dimostrazione connessa ai processi della corporate, ma mai si è convertito in contratti di fornitura.
Dal mio punto di vista è questo, tuttora, il limite dell’open innovation. Da una parte c’è chi organizza questi programmi in base ai propri bisogni, le corporate, dall’altra le startup che innovano per definizione. Dove è quindi il problema? Sta nei tempi e nei modi: da un lato, le startup si muovono in maniera agile cercando di acquisire quote di mercato in maniera orizzontale, quindi più clienti in diversi settori, per essere più attrattive per fondi di venture capital o possibili acquirenti; dall’altro lato, alle grandi aziende non basta che la soluzione innovativa proposta sia aderente all’80/90% rispetto al bisogno ma deve esserlo completamente. Lo sforzo per la startup nel colmare questo gap rimanente, allo stato dell’arte, non è conveniente a causa dei tempi di risposta, purtroppo per natura non agili, delle corporate. Questo scoraggia spesso le startup a proseguire.
In questo contesto si possono inserire da protagonisti i Venture Builder che sono operatori che hanno come obiettivo quello di lanciare nuovi business con un team indipendente dall’originator dello stesso sia questo derivante da bisogni di piani strategici del top management di una grande azienda, da uno spin-off di una PMI o da un’idea di un gruppo di imprenditori.
È qui che i Venture Builder rappresentano un nuovo modo di fare open innovation andando di fatto a creare una startup che nasce su un bisogno interno che vada a coprirli interamente grazie al loro intervento che opera in maniera indipendente, dove contano velocità di esecuzione e risultati, appunto come una startup che deve scalare velocemente la propria iniziativa. È fondamentale questa separazione e indipendenza operativa sia per discostarsi dalle barriere interne che per evitare di replicare sotto altro nome una “solita” iniziativa di ricerca e sviluppo.
Il vantaggio fondamentale è quello di vedere realizzata l’iniziativa e che essa possa essere misurata con metriche dalle quali iterare la stessa con le metodologie proprie delle startup. Accanto a questo ci sono vantaggi facilmente immaginabili tra cui, insieme alla già citata velocità di esecuzione, processi snelli, flessibilità e possibilità di funding esterno.
A favore del modello esiste già un caso scuola molto importante, quello di Daimler, che da sempre ha un track record nell’innovazione aziendale e che ha ufficializzato il rapporto con il builder 1886 Ventures.
Al netto della buzz word del momento, il fenomeno è da tenere sott’occhio e preso seriamente in considerazione sia da chi già offre programmi di open innovation sia da chi sta studiando modelli per portare innovazione nelle aziende.