Tornano di moda i dischi in vinile e i ricordi dei balli con il juke box
Questa proprio è una rivincita generazionale inattesa e il cronista vostro pensa di non essere il solo a “restàr curt”, a rimanere meravigliato: sta tornando il disco, proprio quello d’una volta
Renzo Dall'AraQuesta proprio è una rivincita generazionale inattesa e il cronista vostro pensa di non essere il solo a “restàr curt”, a rimanere meravigliato: sta tornando il disco, proprio quello d’una volta, in vinile. Notizie da tutte le parti, nicchia sarà ancora, ma fenomeno è serio, già il 4 per cento dell’intero mercato, in continuo aumento.
Non solo rivincita dei vecchiotti e/o vecchi nostalgici: alla Gazzetta d Mantova non è sfuggito l’ambaradàm del 9 gennaio scorso al Leone di Lonato, con interruzioni di traffico e assalto dei fan al cantante Marco Mengoni: come informato non sarei credibile, ho solo letto che il suddetto Mengoni è in testa alla classifica con “Le Cose Che Non Ho”, maiuscole ufficiali nel titolo, incisa in vinile a 33 giri, proprio il formato in resurrezione, uscito dai mercatini e dal collezionismo per diventare di moda (pardon, si deve dire trendy) tra i ragazzi.
Nonni, coetanei miei, tirate fuori dalle soffitte e spolverate i nostri padelloni non solo, ma perfino i giradischi, mitici complici delle festine casalinghe d’una volta: si riaffacciano pure quelli, incredibile.
Adesso posso guardare in faccia le nipoti ragazzine e il loro linguaggio criptico per dire la mia, almeno a livello di disco, grammofono, puntina da inserire nel diaframma, braccio che sbandava, con inevitabili graffi del vinile e suono miagolante o singhiozzante.
Per il vero e nel rispetto della storia, prima il disco era stato a 78 giri, scoperto da “bagaèt”, bambino, perché Giulio Benedini, amico di famiglia che aveva un colorificio (c’è ancora a Mantova, in vicolo Sant’Anna) ne portava con annesso fonografo Voce del padrone. Audizioni collettive, repertorio vario, da Carlo Buti a Beniamino Gigli.
Dopoguerra, si ballava dappertutto e la domanda del disco cresceva vertiginosamente. Arrivavano le novità: Lp, Long playing, il 33 giri in vinile soppiantava il 78 giri, ma irrompeva il disco più piccolo, a 45 giri, una canzone per facciata. Imparavamo il nuovo termine microsolco.
Non bastasse, ecco la macchina misteriosa, tutta luccicante, il juke box, più facile chiamarlo “giuboss”, a ulteriormente vuotare tasche asfittiche: musica a moneta nei caffè e ulteriori occasioni di litigio tra scelta del repertorio e volume. In quegli anni, diventati favolosi dopo nella retorica epocale entrava, per così dire, la San Vincenzo del disco e grammofono, vale a dire i negozi che noleggiavano. Gli sfigati, spesso previa colletta, racimolavano così la materia prima sonora della festina.
L’altra materia prima (femminile) rimaneva aleatoria per gli ostacoli di genitori, zie, nonne non ancora aperti alla rivoluzione dei costumi.
Allo specchio della memoria mi vedo sbiadito, né aiutano gli annuari commerciali, che ignoravano il disco: per quanto posso, ricordo in città il Peverada Giorgio, portici Broletto; il Cialento, Enzo Dall’Oglio, via Arrivabene; il Grassi di corso Umberto, anche per via del figlio Francesco detto Dipo, fisarmonicista e amico. Per non dire dei Paterlini, Desidera, Ruzza, Galeazzi: più o meno da tutti avremo bussato. Grato comunque oggi di contributi e correttivi, da memorie migliori.
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