Mantova, quando il Sociale fischiò Puccini e applaudì l’usignolo di Governolo
MANTOVA. “Puccini? Il pubblico è suo, completamente suo” proclamava fin dal 1895 il musicista, compositore, critico mantovano Aldo Ottolenghi e tutto il popolo del melodramma è d’accordo ancora oggi, ultima dimostrazione la planetaria Madama Butterfly inaugurale della Scala 2016. Il pubblico del Sociale però, nella sua ultracentenaria storia, non è stato sempre d’accordo, diciamo che è andato a corrente alternata, già dal Carnevale 1908 e dalla prima rappresentazione della Butterfly.
Se al suo esordio scaligero milanese, quattro anni prima, l’opera era finita con “grugniti, boati, muggiti, risa, sghignazzi”, a Mantova e per 12 sere, teatro sconsolatamente poco gremito, anche se l’esecuzione era buona. Lasciavano passare un quarto di secolo per riprovarci, nel 1923 e non andava del tutto liscia: applausi alle tre Cio-Cio-San (una giapponese) alternatesi, male i tenori e sostituito alla direzione, per un veto dell’editore Ricordi, il maestro Ottolenghi, che peraltro si viveva il successo, dopo Milano, della sua opera “Pamperos”, nell’umor popolare diventava subito “Pan per e os”.
Nel 1931 l’evento era la Settimana mantovana in settembre: nel programma un Orfeo di Monteverdi in sala di Manto al Ducale, direttore artistico Ettore Campogalliani e 17 spettatori paganti. Ma finalmente una Butterfly al Sociale, con tre soprano-star: Mafalda Favero, Rosetta Pampanini e Iris Adami Corradetti, teatro gremito, grandioso successo, a parte un tenore afono di colpo e sostituito subito in scena.
Insomma, sembrava che potesse funzionare anche dopo: nel 1949 con la giapponese di turno, Tosiho Kasegave (straordinaria per il critico della Gazzetta) e nel 1954, quando il pubblico poteva godersi una Magda Olivero già signora della scena e del canto, poi ospite d’onore al Bibiena nel 2010, il 20 marzo, festeggiata in anticipo di 5 giorni per il suo centesimo compleanno.
Non risparmiavano certo gli aggettivi entusiasti i critici della Gazzetta (Adalberto Genovesi, Umberto Bonafini) che non scendevano certo di tono per la Cio-Cio-San di Margherita Benetti, l’usignolo di Governolo, e per l’altrettanto mantovano tenore Mario Madella.
Margherita era soprano che più pucciniano non poteva essere, per grazia e sensibilità interpretativa, confermata dalla Bohéme al Sociale del 1955, dal Trittico del ’59 (tornata, non per lei, freddezza d’altri tempi del pubblico, teatro mezzo vuoto) e ancora nel ’64, quando era Mimì a fianco di Luciano Pavarotti, fresco reduce, l'anno prima, da un Rigoletto di lusso con Renata Scotto e Piero Cappuccilli, scusate se è poco.
Replica del festoso successo, con la quota dei governolesi in teatro ad aumentare la temperatura pro-Margherita, rimasta sempre alta pure nella Bohéme del 1966. Vien da dire già a me che basterebbe rivangare, ma non va trascurato che Puccini a Mantova aveva incominciato male con la prima Bohéme nel 1897-98: fischiati cantanti, direttore d’orchestra, soprano sostituita, tenore scarsissimo e burrasca la seconda sera, che coinvolgeva il direttore d’orchestra Ignazio Mastrilli, popolare come direttore della Scuola comunale di musica, addirittura licenziato per una furiosa baruffa con vari orchestrali, in particolare il contrabbassista.
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