Ortombina: «Dopo i grandi teatri sogno il Sociale»
Dalla Scala alla Fenice: «Vorrei concludere la mia carriera come direttore a Mantova»
di Maria Antonietta FilippiniMANTOVA. Fortunato Ortombina è appena diventato Sovrintendente della Fenice di Venezia con 4 milioni di telespettatori per il concerto di Capodanno in diretta Rai dal “suo” teatro. Cosa si può desiderare di più? Eppure coltiva ancora un sogno. «Vorrei concludere la mia carriera come direttore del Teatro Sociale di Mantova. Ci penso da tempo». Sembra uno scherzo. Il mago dei teatri lirici è di Goito ed è nato a Mantova, ma davvero gli piacerebbe far risorgere il Sociale che da molti anni non riesce a proporre opere immuni da critiche?
«Certo, per tanti motivi. Anzitutto è bellissimo, sullo sfondo del corso principale, lo si vede da lontano entrando in città. Nemmeno la Scala ha una simile prospettiva, forse il Massimo di Palermo. E poi ha un passato glorioso. Fu fondato nel 1822 sotto gli austriaci e inaugurato con la prima di un’opera di Otto Nicolai, che in ambito germanico era come Verdi in Italia. Al Sociale, e all’Arena di Verona, ho visto le mie prime opere. Non dimentichiamo che vi ha debuttato Placido Domingo nel 1971 con il Ballo in maschera. Per poco non ci cantavo anch’io a 14 anni, in Cenerentola, che ha un coro maschile. Immagino per risparmiare, furono richiesti gli studenti del Conservatorio. Era quasi fatta, ma il ragionier Ezio Ricci disse di no per problemi sindacali e di assicurazioni, visto che eravamo minorenni. Ci rimasi male e Ricci poi non mi è mai piaciuto. Finché nel 2013 ci ritrovammo al concorso lirico di Sarzana, la sua città. A Mantova insegnava e, appassionatissimo di lirica, entrò nel giro dei palchettisti e fu per una vita il direttore di fatto del Sociale. In quei giorni in giuria, sempre insieme, mi raccontò un’infinità di aneddoti di 50 anni del Sociale e mi divenne simpatico. Quando è morto qualche mese fa mi è dispiaciuto. Anche se aveva più di 90 anni, era l’unico di noi che si faceva due chilometri a piedi dall’albergo. Mi raccontò anche di quando il grande maestro di canto Campogalliani gli segnalava suoi allievi per il Sociale. Uno era Pavarotti».
Può rinascere il Sociale?
«Perché no? Mantova è centrale, in Lombardia fra il Veneto e l’Emilia patria di Verdi, zone che amano la lirica. Ho incontrato molti mantovani alla Scala e alla Fenice, quando uscivo nell’intervallo a parlare con il pubblico. Mantova ha vivacità culturale, un’orchestra da camera dal 1981- l’ho vista nascere - che è forse la migliore d’Italia, e un conservatorio oggi autonomo. Il teatro Bibiena poi è uno spazio meraviglioso dove ha suonato Mozart. E c’è un motivo economico, Mantova può ritrovare la sua forza di attrazione».
Proprio per la famiglia Ortombina, come tante emigrate dalle colline povere del Veneto, la fertile Mantova fu un miraggio
«Io sono il primo Ortombina nato nel Mantovano. Mio padre Luigi veniva da Caprino Veronese, alle falde del Monte Baldo. È mancato a 31 anni, quando io ne avevo 3. Sono seguiti anni difficili. Ma nel 1970 è arrivata la musica».
Ci racconti
«Nel 1964 entrò il televisore in casa. Al pomeriggio ascoltavo le sonate di Beethoven con Isaac Stern e le ballate di Chopin con Benedetti Michelangeli: pensi un po’ cos’era la Rai allora. Finché, in quinta elementare, ho conosciuto il maestro Renzo Leasi. Fu un caso, in classe ero vivace e la maestra mi mandava spesso fuori in punizione. Nel corridoio c’era Leasi che teneva corsi di solfeggio ai ragazzi della banda che aveva da poco fondato. Sei mesi di solfeggio, prima di passare allo strumento. Volevo farlo anch’io e Leasi mi accettò. Alla Banda gli strumenti li mandava il ministero. Io chiesi il clarinetto e la notte prima dell’arrivo della cassa di Roma non dormii per niente. Ma l’indomani, per me era rimasto solo un trombone, non volevo restare a mani vuote e me lo portai via. Poi mi sono iscritto al conservatorio Campiani, e ho avuto come maestro di tromba e trombone Giordano Fermi, Dalboni per solfeggio e canto, ricordo anche Candioli. Era un distaccamento di Parma e nel 1980 ci sono andato e mi sono diplomato. Ho anche studiato musicologia con Claudio Gallico».
Da lì inizia la carriera di Ortombina. Prima come maestro e collaboratore al Regio di Parma, dove si è anche laureato in lettere, e per 10 anni all’Istituto nazionale di studi verdiani
«Fino a 35 anni la mia è stata una vita da musicista e musicologo, poi mi hanno chiamato come assistente al Regio di Torino, quindi al San Carlo di Napoli come segretario artistico».
Alla Fenice, Ortombina arriva nel 2000: è un cantiere dopo l’incendio del 1996. Come direttore artistico prepara la riapertura del 2003, una intera settimana di concerti e festeggiamenti
«Sì, ma vi partecipai da ospite, perché ero stato chiamato alla Scala, e chi può rinunciare al più importante teatro del mondo? Ero coordinatore della programmazione artistica, perché il ruolo di direttore artistico non esisteva più. Ma devo ringraziare Wikipedia che mi ha messo nell’elenco dei direttori artistici, con predecessori come Tullio Serafin e Victor De Sabata. A Venezia organizzavo la riapertura, mentre gli spettacoli si tenevano nel tendone del Palafenice. E’ curioso, ho lavorato per riaprire due teatri chiusi: alla Scala era in corso l’imponente restauro e l’attività era spostata agli Arcimboldi».
Da Milano però è tornato a Venezia...
«Mi chiamò il sovrintendente Giampaolo Vianello. Alla Scala con i più grandi direttori, come Riccardo Muti, avevo imparato tantissimo. Risposi: vengo se c’è un progetto rivoluzionario, il teatro sempre aperto, non solo per scegliere opere e artisti. In Germania, dove avevo studiato, mettevano in scena oggi la Tosca, domani Fidelio, e il giorno dopo il Woyzeck. La Fenice aveva 8 titoli, con 5-7 recite per i turni degli abbonati, in tutto 45-50 rappresentazioni. Si doveva allargare. Studiai l’organico, per vedere come fare senza nuove assunzioni né straordinari. Io volevo che ci fossero anche i grandi classici: Verdi, Puccini, Donizetti. Oggi abbiamo 150 spettacoli l’anno su 20 titoli e non mancano mai Traviata, Bohème, Barbiere di Siviglia, Elisir d’amore. Il pomeriggio del 3 gennaio Traviata ha fatto il pieno. Molti vengono apposta dall’estero, anche grazie ai voli low cost. Venezia è stata sempre nota per le opere desuete, le proposte nuove, le riscoperte. Io ho voluto anche i grandi classici: Verdi, Puccini, Donizetti».
La Fenice è il teatro italiano con più spettacoli?
«Come lirica sì, la Scala fa di più, però con oltre 50 eventi di balletto. E poi Milano ha un milione e mezzo di abitanti. Venezia è piccola, ma ha i turisti. Mi hanno sostenuto, nei 10 anni da direttore artistico, il sovrintendente Vianello e poi Cristiano Chiarot che ora mi ha passato il testimone».
E’ questo il modello Fenice? Quello a cui dovrebbe ispirarsi il Teatro Sociale?
«Pensate come sarebbe bello un Teatro Sociale con il palcoscenico restaurato per consentire l’alternanza degli spettacoli , dove poter vedere il Don Giovanni di Mozart, con l’Orchestra da camera di Mantova che suona, scoprendo giovani cantanti. Tenere il teatro aperto tutti i giorni sarebbe un grande motore economico. Pensate all’interazione con il turismo dell’arte di Mantova e delle zone circostanti, all’aumento del turismo per cui si dovrebbero costruire più alberghi. Mantova con la sua bellezza, la musica, con due teatri bellissimi, tanti musicisti perché c’è il conservatorio, e la cucina conosciuta in tutto il mondo non meno della Camera degli Sposi. Potrebbe funzionare, come a Venezia».
Ci sono dei dati?
«La Camera di Commercio ha fatto uno studio: dalla Fenice alla città di Venezia arriva un indotto di 40 milioni di euro l’anno per alberghi, ristoranti e altro grazie agli spettatori dall’estero».
I teatri italiani piangono, la Fenice ha i conti a posto?
«Siamo in pareggio, consolidato grazie alla grande attività col turismo».
Mantova e il Sociale possono sperare in una collaborazione con la Fenice?
«Chissà. Con Mantova e Cremona, l’anno scorso abbiamo fatto due progetti per Monteverdi».
Alla Fenice, Enzo Dara nel 2015 tenne la sua ultima regia, “La Cambiale di matrimonio”
«Ho voluto proporre le 5 farse veneziane di Rossini: aveva 18 anni, non aveva mai scritto un’opera, il teatro San Moisè nel 1810 lo invitò basandosi sui suoi compiti di scuola. E Rossini realizzò un ciclo di 5 gioielli. Per uno di questi ho chiamato il compianto Enzo Dara. È stata un’esperienza meravigliosa averlo qui come compagno d’armi tutti i giorni, per un mese, alle prove, con un cast di giovani che lui ha saputo motivare alla grande. Lo spettacolo è stato bellissimo e ha avuto un successo immenso, con due repliche. Enzo Dara era una persona piacevolissima, intelligente, colto, ironico, sempre allegro, non capivi dove finiva il cantante buffo e dove la persona».
Domenica, a Goito, alle 18 in Sala Verde, le assegneranno la cittadinanza onoraria...
«Provo una profonda riconoscenza per la terra in cui sono cresciuto e per la sua gente, è la terra della mia famiglia».
Da Goito non ha mai voluto andarsene sua madre Angiolina
«Che viene sempre a Venezia per ogni nuova rappresentazione. E c’è anche ogni volta che arriva il pullmann di goitesi, almeno una volta all’anno».
Che ricordo ha di Goito?
«La mia vita è cominciata con i solfeggi di Leasi. È stata fondamentale la pratica musicale con la Banda di Goito, con lo strumento e con la direzione, perché Leasi più volte mi ha dato anche la possibilità di dirigere la banda. Mi è servito moltissimo quando ho assunto la responsabilità di dirigere teatri».
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