Heller, la filosofa che amava Mantova e il Festivaletteratura
Quando arrivò la prima volta, nel 2010, era già un’icona. Avrebbe dovuto partecipare anche alla prossima edizione
Ornella Crotti
MANTOVA. Con Ágnes Heller abbiamo perduto una delle pensatrici più significative della riflessione etico-politica contemporanea: una figura di filosofa la cui voce di dissidente ha attraversato il '900 ed è giunta fino al nostro presente non smettendo mai di esercitare con lucidità e determinazione un pensiero critico che ha dato contributi illuminanti grazie alla sua capacità puntuale e tenace di analisi, di scavo e di smascheramento ma sempre venata di inguaribile ottimismo. Di famiglia ebraica, nasce a Budapest nel '29, vive l’orrore della guerra e della persecuzione nazista e perde il padre ad Auschwitz.
Sopravvissuta all’Olocausto diventa assistente del filosofo e dirigente del partito comunista ungherese György Lukács ma dopo i fatti d’Ungheria del '56, aderisce con altri dissidenti alla “Scuola di Budapest”. Viene espulsa dall’Università ed emigra in Australia dove insegna all’Università di Melbourne e in seguito ha prestigiosi incarichi di docenza anche negli Usa, in particolare alla “New School for Social Research” di New York dove ricopre la cattedra che era stata di Hannah Arendt nei confronti della quale ha più volte riconosciuto il suo debito teorico.
Incontriamo sempre nel suo pensiero l’invito a un filosofare che si intreccia con un indomabile amore per la vita e per gli esseri umani concreti, con i loro desideri e bisogni e le loro richieste di riconoscimento e di dignità. In questi ultimi anni la sua voce di dissidente nell’Ungheria di Orbán si è intrecciata al suo costante contributo al dibattito filosofico che l’ha vista confrontarsi con i più importanti intellettuali contemporanei: memorabili i suoi vivaci confronti con Zygmunt Bauman.
Amava moltissimo l’Italia, soprattutto ammirava il nostro Rinascimento ma amava anche ciò che di bello dà senso alla vita come i rapporti umani autentici, la grande letteratura, le opere d’arte.
Era già un’icona quando ha partecipato nel 2010 al Festivaletteratura di Mantova (e sarebbe dovuta tornare come ospite il prossimo settembre): era la prima volta che la ascoltavo dal vivo e la ricordo per la carica vitale che trasmetteva, estasiata dalla città, entusiasta di tutte quelle persone che ascoltavano, discutevano, leggevano mentre il suo modo di rivolgersi a chi, come me si era avvicinata per parlarle, era così empatico che sembrava ti conoscesse da sempre.
Il suo percorso di ricerca si era, già dai primi anni '70, allontanato dalla “grande narrazione marxista” ma, senza perderne i valori, ha costantemente conservato gli echi della speranza in un mondo migliore e in una giustizia umana che deve essere in grado orientare il nostro cammino. Diceva ironicamente che un mondo perfetto non era desiderabile né auspicabile perché hanno già cercato di realizzarlo i totalitarismi… ma migliore sì!
Le sue numerose opere nell’ambito di una teoria della morale che traccia un percorso di ricerca di grande spessore etico in grado di assegnare un ruolo decisivo alle emozioni e ai sentimenti, sono rivolte all’ideale utopico di un essere umano di cui vengono valorizzati i bisogni e il desiderio di autorealizzazione, un essere umano produttore di bontà pratica, di bellezza artistica e di giustizia politica.
C’è una domanda che come un filo rosso attraversa la sua riflessione: “Le persone buone esistono. Come sono possibili? È il bene, non il male che richiede una spiegazione”. Voglio ricordarla con l’invito che appare nell’elaborazione teorica più recente, di fronte a una realtà che sta pericolosamente mostrando il suo volto distopico e a un’Europa che sembra smarrire i suoi valori, ha affermato: “Le distopie sono avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla disillusione e alla catastrofe. Oggi bisogna coltivare il giardino in cui viviamo”.
I commenti dei lettori