Zanardi da brividi accende la piazza: «Dopo l’incidente mi bastava vivere»
Il racconto del campione con le gambe amputate: «Non sono speciale: chiunque si impegni può farcela»
Matteo Sbarbada
MANTOVA. «La mia storia non è speciale o importante più di altre. Chiunque metta passione in quello che fa, anche senza un pubblico davanti, può costruirsi una storia importante». L'ovazione che accoglie Alex Zanardi in piazza Castello è da brividi, con l'applausometro della platea che raggiunge livelli toccati raramente nella fortunata storia di Festivaletteratura. «L'applauso toglie ogni dubbio, io pensavo foste qui per qualcun altro», scherza il campione bolognese, che ricambia il saluto ringraziando gli spettatori che hanno atteso di entrare in piazza in coda sotto la pioggia. La storia di Zanardi è segnata dal drammatico incidente del 2001, in seguito al quale subì l'amputazione degli arti inferiori. Nella sua 'seconda vita' è tornato a correre in auto, per poi collezionare trionfi e medaglie ai Giochi paralimpici di Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016.
«Negli anni precedenti all'incidente mi ero chiesto più volte come avrei potuto reagire di fronte a un evento simile. Penserei di togliermi la vita? Quando ho aperto gli occhi dopo otto giorni di coma quel pensiero è diventato l'ultimo. Essere semplicemente vivo era l'unica cosa che contava davvero. Oltre al dolore ricordo solo la gioia, il mio sorriso. Pensavo a cosa avrei potuto fare, a cosa era rimasto, non a cosa avevo perso».
Imbeccato da Francesco Abate, Zanardi scherza con Gianluca Gasparini, giornalista sportivo e co autore dei suoi libri. Tra questi, Quel ficcanaso di Zanardi. Osservando lo sport ho capito meglio la vita, uscito quest'anno. «Mi avete messo in cattedra ma io non voglio spiegare come si sta al mondo. Do solo la mia opinione».
La parola che torna più spesso è fortunato. «Grazie allo sport sono diventato la persona migliore che potessi diventare. Una vita con un percorso netto dalle avversità è pura utopia. Si fa quadrato con le persone che si amano e poi bisogna saper ripartire». Il pensiero va alla sorella Cristina, scomparsa in un incidente stradale. «Io ero un ragazzino sregolato, senza obiettivi, che bighellonava tutto il giorno. Lei era l'esatto contrario. Ero spericolato e si poteva pensare che qualcosa di male sarebbe potuto capitare a me. La vita, però, riserva sempre delle sorprese. Di lei conservo sempre un ricordo dolcissimo».
La famiglia è sempre al centro della chiacchierata. Papà Dino, con la sua saggezza celata in un'ironia pungente, resta un grande punto di riferimento. «Il mio 'vecchio' non c'è più dal 1994. A 14 anni mi propose il go kart come alternativa al motorino. Abbandonò i suoi interessi per seguirmi. Mi diceva sempre di ascoltare gli altri, far tesoro delle esperienze altrui e poi metterci del mio. Una sua massima era: 'chi copia prende 5, ma è sempre una buona base di partenza'. Ho dei ricordi splendidi».
Degli haters, gli odiatori seriali del web, non si cura. «Era uscita una vignetta su di me che aveva scatenato indignazione a livello nazionale. E pensare che a me aveva fatto ridere. Gli haters ci sono sempre stati, ora hanno strumenti per farsi notare. In questo periodo storico siamo diventati più curiosi di cattive notizie».
Cattive abitudini dalle quali non è esente la politica. «Servirebbe una commissione etica per valutare chi deve gestire il bene comune. Chi tocca una tastiera senza collegare il cervello non dovrebbe più rappresentare il popolo». Lo sport come metafora di vita. «Una gara, con un po' di fortuna la puoi vincere. Diverso se una vittoria arriva dopo tanto lavoro, non per il caso. Ti puoi guardare allo specchio e pensare 'ho fatto il mio'. Quello che posso dire è che in questo mondo per star bene devi sorridere alle persone e fare in modo che loro sorridano a te».
Il finale è per il progetto Bimbingamba, associazione voluta da Zanardi che realizza arti protesici per i più piccoli. Tante le storie toccanti. «Io racconto sempre quella di Anna Maria, bimba moldava. Nata senza un braccio venne abbandonata dal padre. La madre venne in Italia per lavorare e dovette lasciarla in un istituto. La vidi per la prima volta a Bologna e ricordo che fissava solo il pavimento. Nacque un'amicizia. Dopo l'operazione la raggiunsi in un bar. Sul tavolino, un boccettino di smalto. Mi disse che voleva condividere con me quel momento, la prima volta in cui se lo metteva sulle unghie. Piangemmo entrambi. Ricordo il suo sguardo, quando se ne andò. Guardava tutti fieramente negli occhi».
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