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L’inquietudine negli occhi, l’arte e il dolore

Miriam Galanti di Borgoforte da anni trasferita a Roma racconta il suo percorso: «Cerco l’ispirazione nella natura e mi commuovo». A dicembre in scena al teatro Brancaccino con un testo di Dennis Kelly. A gennaio sul grande schermo con “In the Trap”

Enrico Comaschi
2 minuti di lettura

MANTOVA. «Oggi sono io a scegliere, mi do la possibilità di realizzare progetti a cui tengo. Al di là dei provini che pure ci sono, certo». Miriam Galanti è tornata da Roma, dove vive e lavora, per fare una sorpresa alla mamma che abita a Borgoforte. Una chiacchierata con Miriam è un’opportunità da cogliere al volo, perché quest’attrice manifesta consapevolezza e sensibilità uniche, doti che la tengono lontano dalla tentazione di recitare anche durante una passeggiata con il cane o durante una cena con gli amici.

A dicembre Miriam sarà in scena al teatro Brancaccino di Roma con “After the End” (da un testo di Dennis Kelly) per la regia di Marco Simon Puccioni. E a dicembre uscirà al cinema il film “In the Trap” per la regia di Alessio Liguori.

Anche di fronte a talento e intelligenza la prima tentazione è quella di fare una domanda sui provini, che per un profano equivalgono ad un colloquio di lavoro, giocoforza ansiogeno. Come ci si sente ad essere giudicati dopo anni di lavoro e di studio? «Dipende - sorride Miriam - Ci sono interlocutori costruttivi. Se ho di fronte un regista con il quale anche durante i pochi minuti di un provino si costruisce qualcosa, allora vale sempre la pena di prepararsi ed affrontare un giudizio basato su qualche battuta. Diversamente è un’esperienza che può rivelarsi arida». Pasolini diceva che l’arte non è oggetto di consumo. Lei ha l’impressione che il lavoro di un attore o di un’attrice possa essere in qualche modo mercificato? «Le posso rispondere così. Quando ho fatto il provino per “In the Trap” non ho lavorato per un ruolo, ho deciso in piena consapevolezza di mettere una parte di me in quello che avrei dovuto recitare. Certo mettersi in vista è pericoloso, l’esposizione può essere per l’appunto un passo verso la mercificazione di sè. Ma io resto aperta per il tempo necessario, poi chiudo la porta: non identifico la mia vita con il lavoro».

Un capitolo da affrontare con Miriam è quello del dolore, perché lei ha imparato ad affrontarlo da bambina con la morte della sorella, poi da giovane donna con la morte del padre. «Passare attraverso il dolore è un modo per ricordare, e nell’ambito della recitazione è uno strumento imprescindibile. Le dirò che spero, in futuro, di imparare ad essere più attenta: questa fusione deve essere temporanea, altrimenti fa male. Perché quando scavo scopro di essere una belva. Bisogna fare attenzione».

Miriam cita l’esempio della cantante Amy Winehouse: «Un’anima pura che si trascinava in giro un dolore immenso. Un dolore che l’ha imprigionata. Un dolore che lei non è riuscita a far convivere con il suo corpo, fino a morirne. Io provo profonda gratitudine verso la vita, e questo è salvifico. In questo senso le dicevo che passare attraverso il dolore è un modo per ricordare, ma deve essere utilizzato con cautela».

Cosa cercano tutti i giorni gli occhi di un’attrice? «Io sono predatoria nella natura, della natura ho una visione artistica. Non sono una di quelle attrici che pesca dalle vite degli altri. Io cerco l’arte in un paesaggio e trovo una connessione, mi commuovo. Detesto chi simula, chi fa l’attore nella vita, per vedere che effetto fa sugli altri».

L’equilibrio tra vita e lavoro, tra dolore e arte, cela una personalità inquieta. Lei infatti ammette che vorrebbe essere più leggera di così: «Ma è un peso che devo portare». Ci sono momenti in cui l’inquietudine la spinge alla ricerca estrema: e allora un giorno dopo il suo compleanno si è buttata per la prima volta con un paracadute, un altro giorno si è fatta scivolare protetta solo da un caschetto nel torrente delle cascate delle Marmore: «Ho avuto paura e nel torrente mi sono presa un sacco di botte, ma avevo bisogno di dare fisicità al dolore e, così, di sdrammatizzarlo. Mi sono sentita scossa. E pensare che da piccola ero una fifona... Tra le mie amiche sono stata l’ultima a togliere le rotelle alla bicicletta».

A proposito di paura. Sul palcoscenico non ci sono reti di sicurezza: «Era da due anni che non facevo teatro, sono molto felice di tornarci. Mi concedo di fare soltanto cose che mi piacciono, e questo lavoro è fantastico: non vedo l’ora».
 

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