Mantova e Napoleone a 200 anni dalla morte
La sua sfortuna: nel 1627 i Gonzaga avevano venduto la Celeste Galeria al re d’Inghilterra. Il suo lascito: il forte di Pietole
GILBERTO SCUDERI
MANTOVA. Amareggiato, probabilmente, fu Napoleone perché centosettant’anni prima del suo arrivo, nel 1627 i Gonzaga avevano venduto la Celeste Galeria al re dell’Inghilterra, sua acerrima nemica. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, a Mantova molti capolavori d’arte non c’erano più. Ma qualcosa da razziare era rimasto, e quel poco o tanto lui lo arraffò o cercò di carpirlo.
Di là da venire era il 5 maggio 1821, giorno in cui morì a Sant’Elena, isola al centro dell’Atlantico. Napoleone non era affatto «siccome immobile» né aveva dato il «mortal sospiro», come scrisse Manzoni nell’ode dopo il momento fatale della dipartita.
Anzi. Il giovane generale, impegnato della campagna militare d’Italia, era mobilissimo e per capacità respiratoria capace di mandare in tilt qualsiasi spirometro. Così, capitando nella nostra città - dopo averla tolta agli austriaci, perduta, poi ripresa e infine persa di nuovo - aspirò a portare con sé in Francia più cose preziose che poteva. In questo modo si comportano di solito i vincitori, che in qualche caso possono anche lasciare qualcosa di buono: per quanto riguarda Napoleone, un codice civile e un modello di amministrazione pubblica e di burocrazia, che a quel tempo erano moderni (oggi qualche dubbio può sussistere).
Ci ha pure lasciato qualche fortificazione, per scampagnate giusto fuori porta: l’esempio migliore è il forte di Pietole, sconquassato un abbondante secolo dopo dall’immane esplosione della polveriera, nel 1917, e oggi abbandonato alla selva (in un ambiente meraviglioso per una camminata o biciclettata poco distante dalla città) in attesa di riqualificazione, museo o chissà cosa. Ci ha lasciato anche ciò che non riuscì a portare via, come il busto in bronzo di Andrea Mantegna (ora nella basilica di Sant’Andrea) e soprattutto la “Moltiplicazione dei pani e dei pesci” di Domenico Fetti, che oggi non sarebbe nel nostro Palazzo Ducale (nella sala degli Arcieri) ma a Parigi al Louvre insieme alla pala della “Madonna della Vittoria” di Mantegna.
A smaniare per il lunettone di Fetti, un capolavoro assoluto, più che Napoleone fu sua moglie Giuseppina, la quale nel 1797 sottrasse all’Accademia di Mantova (oggi Virgiliana) la “Madonna adorante il Bambino in un roseto” di Francesco Francia (del 1500 circa, ora all’Alte Pinakothek di Monaco), un ritratto di Matilde di Canossa del Cinquecento (oggi all’Ermitage di San Pietroburgo) e cinque disegni del Guercino, oltre a qualcos’altro che in parte restituì o pagò.
In Italia i francesi godevano di pessima fama: a Roma, alla domanda se fossero tutti ladri, Pasquino rispose in romanesco: «Tutti no, ma bbona parte sì», nel senso di Bonaparte. Il quale, oltre alle citate opere, sgraffignò prelevandolo dal nostro duomo il dipinto del 1552 di Paolo Veronese “Tentazione di sant’Antonio abate” (ora al Musée des beaux-arts di Caen, in Normandia) mentre di Rubens l’accoppiata vincente per Napoleone e perdente per Mantova fu il “Battesimo di Cristo” (oggi ad Anversa) e la “Trasfigurazione di Cristo” (a Nancy).
Insieme alla “Famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità” (oggi, mutilatina, a Mantova nella sala degli Arcieri del Ducale) facevano tutt’e due parte del trittico dipinto da Rubens nel 1605 per la cappella maggiore della chiesa della Trinità dei Gesuiti (oggi parte dell’Archivio di Stato, in piazza San Luigi Gonzaga-via Ardigò). Anche una pala d’altare di Giulio Romano, del 1532-1534, fu sottratta da Napoleone: la “Natività con san Longino e san Giovanni” (oggi al Louvre) che si trovava nella cappella Boschetti, la sesta sul lato destro della navata della basilica di Sant’Andrea (al suo posto c’è una copia).
Il bello è che, nella copia, lo sguardo di san Longino è rivolto, fuori dalla tela, verso l’affresco a muro di Rinaldo Mantovano che rappresenta il “Ritrovamento del Preziosissimo Sangue di Cristo”. Nell’originale, al Louvre, invece, San Longino guarda fuori dalla tela verso il nulla. Per coerenza Napoleone avrebbe dovuto asportare anche l’affresco di Rinaldo.
Tra le opere sparite c’era anche un busto raffigurante Euripide (marmo greco, portato da Napoleone a Parigi, poi restituito a Mantova dopo il 1815) e - così disse il conte Alessandro Magnaguti nella conferenza del 9 marzo 1928 su “Napoleone a Mantova e nel Mantovano”, pubblicata dalla Tipografia Eredi Segna di Davide Vacchelli - la presunta erma di Virgilio (testa e inizio del busto, su pilastro) e un gruppo di bronzo con due piccole statuette rappresentanti Ercole che uccide Anteo.
Il confine tra cosiddetti “diritti di conquista” e il ladrocinio erano labili. Ma la cosa più incredibile, però vera, è che il Bonaparte cullava il progetto, allo studio di una commissione di artisti, di strappare gli affreschi della sala dei Giganti di Palazzo Te e di trasportarli a Parigi. Operazione, per fortuna, considerata da lui stesso a rischio «de perdre et détruire ces chefs d’oeuvre», di distruggere tutto. —
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