In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni

Il numero e la geometria giocano un ruolo fondamentale

La matematica è un corpo estraneo nell’ambito della cultura classica? È vero il contrario. Fu merito di Landino aver posto le fondamenta della cosmografia dantesca

Ledo Stefanini
4 minuti di lettura

MANTOVA. Sostiene Dante nel XXIX canto dell’Inferno che la nona e penultima bolgia ha un perimetro di 22 miglia fiorentine, stando a ciò che gli dice Virgilio: «Tu non hai fatto sì all’altre bolge:/ Pensa, se tu annoverar le credi,/ Che miglia ventidue la valle volge». Una misura interessante questa, perché non può non richiamare il fatto che non solo nel Medioevo, ma fino al Settecento il valore assunto per il rapporto fra la circonferenza e il diametro è stato assunto uguale a 22/7, dal quale consegue che il diametro della bolgia circolare è esattamente 7 miglia, basandosi su una lettura errata del testo di Archimede «Della sfera e del cilindro» dove dimostra col metodo di esaustione, che tale rapporto – che usiamo indicare col simbolo di Pi Greco - è compreso fra 3+10/71 e 3+1/7. Durante il Medioevo, la conclusione raggiunta da Archimede venne fraintesa e si ritenne che il rapporto valesse esattamente 3+1/7 ovvero 22/7.

Tale numero era fondamentale anche ai tempi di Dante in quanto era la chiave che consentiva il calcolo dei volumi e delle superfici della sfera e delle sue parti geometriche, come ad esempio lo spicchio sferico, quale era ritenuto essere l’inferno dantesco. Lo strumento geometrico di cui Dante si serve è la teoria delle proporzioni tra figure simili, che si può far risalire almeno a Talete ovvero al VI secolo a.C. Non deve quindi suscitare meraviglia il fatto che, nel 1587, l’Accademia Fiorentina abbia invitato il matematico Galileo Galilei a tenere due lezioni su «Sito, forma et misura dello inferno et statura de’ giganti et di Lucifero». Equivaleva ad invitare un ingegnere ad accertare la stabilità statica di un edificio che non aveva altra realtà che l’inventiva di Dante. L’iniziativa stessa è testimonianza di una cultura diffusa molto lontana dall’attuale, con una distanza che spiega, più del linguaggio del sommo poeta, le difficoltà opposte dalla lettura dell’”Inferno”.

Col tempo è invalsa la convinzione che la lettura e il commento della “Commedia” sia materia di pertinenza esclusiva dei letterati i quali – sempre per tradizione – hanno “in gran dispitto” i contenuti che hanno a che fare con la matematica moderna e, per estensione, anche con quella dei tempi di Dante. Alimentando con ciò l’idea nefasta che la matematica (geometria, aritmetica, astronomia) sia un corpo estraneo all’ambito della cultura classica; mentre è vero esattamente il contrario, che la matematica è sapere e strumento di conoscenza. La differenziazione fra sapere umanistico e scientifico non appartiene ai tempi di Dante, quando lo scibile era suddiviso in trivium e quadrivium e neppure a quelli di Galileo, tre secoli dopo, quando si guardava alla “Commedia” come ad una “summa” dell’umana cultura. Del resto, il numero e la geometria giocano un ruolo fondamentale nell’opera di Dante e all’interno del moto di recupero del sapere classico noto come “umanesimo”. Fu merito del fiorentino Cristoforo Landino (1425 -1498), discepolo di Leon Battista Alberti e maestro di Lorenzo il Magnifico, di aver posto le fondamenta della cosmografia dantesca con la pubblicazione nel 1481 di un «Discorso intorno al Sito, forma et misura dello ‘nferno et statura de’ giganti et di Lucifero» premesso all’edizione della Commedia da lui commentata. Il commento godette di larga fortuna per oltre un secolo e rappresentò il testo principale di riferimento per gli studiosi del poema. Lo studio della geometria dantesca, in realtà, non rientrava tra le competenze precipue del Landino, che ricorse alle note di un altro fiorentino: Antonio Manetti (1423 – 1497) che era matematico e architetto e che con le sue competenze espose le sue considerazioni sulla prima cantica dantesca in un «Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino circa al sito, forma et misure dello inferno di Dante Alighieri poeta excellentissimo».

La misura di riferimento è quella del raggio della Terra che Landino, sulla base delle stime di Alfagrano e Tolomeo, assume di 3250 miglia fiorentine ovvero di 5373 km. L’ingresso attraverso il quale Dante scende nell’Inferno è, secondo Landino, il lago Averno, vicino a Napoli. Da Averno a Gerusalemme Landino stima 1750 miglia, cioè 1/12 del meridiano terrestre. Secondo Landino e Manetti l’Inferno ha la forma di un cono con il vertice nel centro della Terra, l’asse coincidente con il raggio passante per Gerusalemme e un’apertura di 60°.

Per questo l’arco che congiunge l’Averno con Gerusalemme è esattamente la dodicesima parte del meridiano. Il compito affidato dall’Accademia al giovane Galileo (aveva 24 anni) era quello di fornire un sostegno matematico allo schema del Manetti.

Le questioni principali sono la statura dei giganti e di Lucifero e quella della stabilità della copertura dell’immensa caverna conica. L’argomentazione seguita da Galileo poggia sulla testimonianza di Dante circa la faccia di Nembrot: «La faccia sua mi parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma» ovvero che la testa del gigante è alta come la pigna di S.Pietro cioè 5,5 braccia fiorentine. Poiché i canoni pittorici stabiliscono che la testa di un uomo è 1/8 della sua altezza, il gigante dev’essere 44 braccia, essendo di 3 braccia l’altezza di un uomo normale. Dall’affermazione poi che il solo braccio di Lucifero sta nello stesso rapporto di un gigante ad un uomo si ricava che il braccio dev’essere lungo 645 braccia fiorentine. Se poi è vero che l’altezza è 3 volte il braccio, quella di Nembrot viene 1936 braccia, con un rapporto, rispetto ad un uomo, di circa 700.

Per quanto riguarda la copertura del cono, all’apice della quale si trova Gerusalemme, secondo Manetti ha lo spessore di 1/8 del raggio terrestre, cioè di 405 e 15/22 di miglio. Sulla tenuta di questo immenso tetto, Galileo non ha dubbi, in quanto sostiene che la cupola del Brunelleschi non sarebbe altro che un modello in scala (con un fattore di 128 mila) della calotta infernale. Se ne facessimo una copia di 50 di diametro, lo spessore si ridurrebbe a circa 8 metri, leggermente inferiore a quello della copertura del Duomo di Firenze che da 150 anni (ai tempi delle lezioni di Galileo) resisteva saldamente al proprio peso. Ne concludeva Galileo che altrettanto saldamente avrebbe tenuto la copertura dell’Inferno. E con ciò la questione appariva (e appare) chiusa: Lucifero è l’ingrandimento, in scala 1 a 700 di uomo. Solo molti anni dopo, nei «Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze», Galileo pose le basi della Similitudine Meccanica, sulla quale della quale dimostrò «non solamente l’arte, ma la natura stessa, crescere le sue macchine a vastità immensa» per il semplice motivo che il volumi e quindi le masse) crescono in proporzione alla terza potenza delle dimensioni.

Le ossa di un gigante grande 700 volte un uomo verrebbero fracassate dal suo peso e una cupola grande migliaia di volte quella del Brunelleschi crollerebbe miseramente sotto il suo peso. Il giovane chiamato dall’Accademia Fiorentina a fornire un sostegno scientifico alla gran fabbrica infernale di Dante, si trovò, cinquant’anni dopo, a dimostrarne l’incompatibilità con le leggi della statica.


 

I commenti dei lettori